Adwa dopo tre anni di pandemia e guerra: la testimonianza di Carolina

Adwa dopo tre anni di pandemia e guerra: la testimonianza di Carolina

Non ricordavo esattamente quando era stato il mio ultimo viaggio ad Adwa, ho dovuto controllare i timbri sul passaporto; gennaio 2020.

Dopo tre anni sono finalmente tornata in una terra che non solo ha combattuto, come tutto il pianeta, contro il COVID 19 ma, anche e soprattutto, ha attraversato una devastante guerra civile da novembre 2020 a novembre 2022.

Nella mia mente avevo immaginato molte volte come sarebbe stato il mio ritorno. Ad esempio avevo immaginato l’abbraccio con Salamawit, coordinatrice della squadra delle pulizie, e così è stato: parcheggiata la jeep in missione sono scesa e lei era lì, sorridente con in mano le chiavi della mia camera, la 214, perché lei si ricordava perfettamente che quella è sempre stata la mia stanza.

I primi giorni sono stati abbracci potenti e spesso silenziosi. In ospedale, nelle aule della scuola, nei campi, negli uffici, nei laboratori; varcavo la soglia o svoltavo un angolo e scattavano gli abbracci e i sorrisi.

Sono arrivata di venerdì mattina e il sabato pomeriggio mi sono concessa una passeggiata per le strade della città da sola. Volevo osservare in silenzio cos’era cambiato e godermi il profumo di caffè. Arrivata in cima ad una salita, nella zona dell’Adwa vecchia, mi sono trovata davanti ad una chiesa con una recinzione circolare e di colpo ho riconosciuto la casa di una donna che per 3 anni ho fotografato durante il reportage “Prisoner Mothers”, perché era una delle detenute nel carcere femminile. In quella casa, prima che la scarcerassero nel 2019, vivevano suo figlio e sua figlia di 15 e 7 anni, da soli, due ragazzi splendidi che tante volte sono andata a trovare. Mi sono messa davanti alla porta che ho trovato aperta. Intravedevo un volto di donna che però non riconoscevo fino a quando una voce dall’interno ha gridato il mio nome “CAROLINA”.

I miei occhi non hanno retto e tutte le lacrime che potevano uscire mi hanno bagnato il viso: era lei, Allem Berhè. Viva.

Ero a casa, finalmente.

Oggi la città non è più come ricordavo. I segni della guerra non sono visibili perché qui nel centro quasi nulla è stato bombardato, tranne una macchina sulla strada principale il cui scheletro ti accoglie all’arrivo.

Sono i segni “invisibili” quelli più devastanti: la paura nella gente, la povertà e la fame.

L’aumento dei prezzi ha reso quasi impossibile la sopravvivenza, ciò che un tempo costava 25 Birr oggi ne costa 100. Gli stipendi non sono cresciuti e spesso ancora oggi – a sei mesi dalla riapertura delle banche – è impossibile riuscire a prelevare denaro.

Shewit, un lavoratore della missione, mi racconta che un ragazzo per ogni famiglia si è dovuto arruolare nell’esercito del TPLF. Suo fratello è partito un anno ed 8 mesi fa e di lui non si hanno notizie da allora.

A Makellè ci sono 800 ragazzi tra i 17 e i 21 anni mutilati. Il vuoto incombe sul loro futuro.

Vuoto ed invisibilità sono quello che ho trovato.

Tantissimi sono i bambini denutriti che affollano le corsie dell’ospedale, così come le mamme che li hanno partoriti.

Tante volte, mentre mi faccio raccontare di quegli anni, mi sono sentita dire GRAZIE A DIO C’ERA L’OSPEDALE della missione. Sì, perché era l’unico rimasto oltre all’Ayder Hospital di Makèlle raggiungibile in quattro ore di macchina.

Anni bui hanno riempito le vite di questa gente, e la paura che possa ricominciare si respira insieme al profumo di caffè.

Ancora oggi ad Adwa ci sono due campi profughi occupati da persone che sono fuggite dal confine con l’Eritrea. Provengono da zone fertili, erano tutti coltivatori e proprietari terrieri, la loro terra è tuttora contesa e sono costretti a “vivere” in capannoni logori, senza luce nè acqua. Li separa dal cielo solo un telo di plastica che nulla può contro la stagione delle piogge.

Schiena e ventre stanchi svuotano gli occhi di 18.299 bambini, 17.068 bambine, 3.600 uomini e 2.299 donne. Cuociono l’enjera sul fuoco in corridoi bui e senza finestre, l’aria è irrespirabile e le loro sagome vagano del buio e nella nebbia, senza meta e riferimenti come una metafora reale di quello che stanno vivendo.

La missione e l’ospedale, mai come oggi, sono un miracolo di speranza.

 

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