Diario di viaggio ad Adwa #3 – Cos’è rimasto della guerra

Diario di viaggio ad Adwa #3 – Cos’è rimasto della guerra

Fin dal volo sul Tigray in aereo, sono andata alla ricerca dei segni della guerra.

Ho voluto il posto lato finestrino e sono stata tutto il viaggio ad osservare e fotografare il paesaggio che cambiava, dalla metropoli disordinata della capitale, passando per le zone rurali verdeggianti, per lande desolate e brulle, fino alle cime rocciose ed i canyon coi letti dei corsi d’acqua secchi. Così come ricordavo da bambina di aver sorvolato a bassa quota il confine tra Sud Africa e Mozambico durante il conflitto civile ed aver visto carcasse di mezzi rovesciati ed abbandonati, cercavo anche qui evidenze di quel tipo. Dall’altitudine di questo volo però ho potuto vedere solo i segni della carestia.

Ogni persona conosciuta che ritrovo ad Adwa è in qualche modo un sopravvissuto. Ad ognuna mi viene spontaneo dire che l’abbiamo tanto pensata, che sono davvero felice di poterla riabbracciare. Ritrovo Rahel, con cui avevo condiviso lunghe giornate di colloqui con mamme e bambini per le adozioni a distanza, e suo marito Tewolde che seguiva l’officina e tutte le riparazioni. Mi ero chiesta tante volte come stesse, come facesse a dare da mangiare ai suoi figli. Li trovo bene, al lavoro, curati nell’aspetto, sorridenti mi dicono che i figli sono cresciuti… sicuramente la fortuna di avere la missione come punto di riferimento ed aiuto ha permesso di affrontare meno pericoli.

Conosco per la prima volta suor Paola, arrivata ad Adwa da alcuni mesi dopo una lunga esperienza in altre missioni etiopi. È la nuova direttrice della scuola. Conosce bene l’amarico, ha una grande vitalità e passione per l’educazione, parla sempre dei suoi allievi. Io non vedevo l’ora di subissarla di domande: “Come siete riuscite ad organizzare le classi avendo perso due anni di scuola? Come hai trovato i ragazzi che sono stati al fronte? Pensi che ce la faranno ad ottenere il diploma?”. Mi spiega che hanno fatto ripartire gli allievi da dove si erano fermati. Ma per far recuperare velocemente i ragazzi più grandi, si sono concentrati i corsi nel primo quadrimestre. Proprio in questi giorni si stanno svolgendo gli esami per l’ammissione alla classe successiva, in modo da fargli fare due anni in uno. Un’accelerata pazzesca imposta dal governo. Mi conferma che chi è tornato dal fronte nei primi tempi si distingueva fortemente dai coetanei: capelli incolti, sguardo vacuo, chiusi nei loro pensieri ed inavvicinabili. Con loro, le salesiane hanno deciso di sorvolare sulle regole ferree che solitamente si applicano alla Kidane Mehret. Hanno lasciato loro il tempo necessario per riabituarsi a stare in gruppo in classe, a far sì che gli orrori vissuti sbiadissero lentamente. Qui non sono abituati ad introspezioni, a verbalizzare i propri sentimenti, all’assistenza psicologica. È un percorso da creare da zero. Ce lo ha detto anche il Ministro della Sanità: non esistono nemmeno le figure professionali formate per questo. Così suor Paola e consorelle, con pazienza, sono state al fianco di questi ragazzi – soldato rispettando i loro tempi ed i loro bisogni. Nel periodo prima di Natale hanno organizzato appuntamenti extra scolastici per preparare le feste e finalmente hanno trovato l’occasione di parlare spontaneamente, in un contesto spensierato ed amicale, e la svolta è arrivata. Si sono un po’ aperti, hanno tagliato i capelli (simbolo visibile di chi era arruolato), sono tornati in pista! Con la consapevolezza che alcune ferite si porteranno sempre dentro, ma con il coraggio di ricominciare ed il desiderio di una vita normale.

Alla fine della nostra chiacchierata, suor Paola mi invita l’indomani a partecipare al “buongiorno” che lei solitamente dà alle 8 prima delle lezioni alle classi riunite. Sono molto contenta dell’opportunità:  i bimbi riuniti tutti in fila perfetta, con la bella uniforme della scuola, che cantano assieme sono uno spettacolo per gli occhi e per il cuore. Dopo il saluto al microfono, suor Paola mi chiede di dire ai bambini perché sono qui… non me l’ero preparato… cosa posso dire per non rattristarli né sembrare la solita bianca che viene ad aiutare? Mi esce qualcosa di non ben identificato: “Sono venuta a vedere se state bene, a dirvi che vi pensavamo dall’Italia e che siamo contenti di vedervi a scuola. Lo dirò agli amici di Italia!”. Insomma, non è un granché, rimugino… chissà cosa sanno di noi…

Al secondo appuntamento del “Buongiorno” coi ragazzi delle superiori, chiedo prima alla missionaria se secondo lei è meglio cambiare la risposta. Mi conferma che questa fascia d’età è più difficile e smaliziata, meglio evitare l’approccio “siamo qui per aiutarvi”. Questa volta sono davvero telegrafica, dico sono che siamo molto felici che siano potuti tornare a scuola dopo questi anni difficili. Suor Paola prende spunto per spronarli: “dovete rendervi conto che gli Amici di Adwa hanno permesso di costruire questa scuola bellissima con grandi sacrifici. Non crediate che in Italia siano tutti ricchi. Ci sono anche famiglie povere. Persone che lavorano duramente ma trovano il tempo di fare volontariato, di usare le ferie per venire ad aiutare. Sapete che la scuola che vi è stata donata è più bella di molte scuole italiane?! Vi offre l’opportunità di costruirvi il vostro futuro, qui. Il vostro paese sarà nelle vostre mani, se cercherete di andarvene da qui il vostro paese non avrà futuro. Impegnatevi anche voi al massimo e siate generosi e solidali coi vostri fratelli”. Dritta al punto. Senza mezzi termini. Ma è sicuramente quello di cui hanno bisogno ora. Grande educatrice.

Rientrando nell’ufficio dal quale lavoro al computer, passo davanti all’ambulatorio di fisioterapia e suor Betty mi chiede se mi fermo da lei. C’ero stata un pomeriggio ma non avevo avuto occasione di vederlo in funzione a pieno ritmo. E di vedere chi dalla guerra ha subito pesanti danni fisici.

Questa mattina arriva un ragazzo con una pesante zoppia, un viso dolce e un inglese fluente che dimostra un ottimo livello di scolarizzazione. La missionaria del Cottolengo mi racconta che in guerra è stato colpito non solo di striscio alla gamba, ma una pallottola si è conficcata nel cervello e non è stata rimossa. Ha chiesto un consulto anche al prof. Catani, che purtroppo ha confermato che sarebbe molto pericoloso intervenire in quella posizione. Con la fisioterapia sta lavorando sul recupero della gamba, ma purtroppo il danno cerebrale causa spesso emicranie, convulsioni ed attacchi epilettici. Quando li sente arrivare, il ragazzo chiede di chiamare subito un bajaji (i folkloristici taxi tipo ape car locali) per correre a casa, non se la sente di farsi vedere in quello stato… ed è ad un passo dalla depressione. Lo vedo però sorridente quando accede alla grande stanza della fisioterapia. Tutti lo salutano, come in una grande famiglia ognuno conosce i mali degli altri e si aiuta a vicenda. Il clima creato da suor Betty è magico: mescolando un po’ di tigrino ed un po’ di inglese, tutti la capiscono o traducono per i meno scolarizzati, scherzano sul modo di eseguire gli esercizi di ginnastica riabilitativa, si aiutano ad attaccare e staccare gli elettrodi della macchina per l’elettrostimolazione, mentre questa energica suora indiana gestisce in contemporanea fino a 15 pazienti mettendo al lavoro anche tutti i parenti che accompagnano!
Ci sono altri casi che mi colpiscono: una signora aveva un’infiammazione del nervo sciatico trascurata da talmente tanto tempo che era arrivata piegata in due su una carrozzina – ora cammina diritta come un fuso – la gente di Adwa grida al miracolo come il paralitico dei vangeli! Un’altra ha avuto un lieve ictus durante la guerra, che le aveva paralizzato metà del corpo. Se avesse cominciato subito la riabilitazione, ora sarebbe di nuovo in piedi, ma oggi è più difficile trattarla, resta in carrozzina, anche se per lo meno sta re-imparando ad alzarsi da seduta, sostenere il bacino per essere cambiata, rimettere in funzione aree del cervello.
Un papà porta a fare terapia il suo bimbo di circa un anno. Non cammina ancora, ha le gambe steccate, ma sta rinforzando i muscoli e qui ha tutti gli attrezzi utili per farlo. Lo bacia e abbraccia in continuazione, una grande tenerezza. Sister mi dice che la moglie è morta, lui ha altre due figlie; per poter portare il bimbo alla terapia, lui non sta lavorando, anche se qualche giorno è andato e le figlie maggiori hanno dovuto saltare scuola per il piccolo.
Poi entra una mamma piccola piccola, magra magra, con una bimbina disabile grave. La riconosco: è uno dei casi di cui mi ha parlato suor Laura e mandato le foto. Il marito è stato ucciso in guerra. Lei è stata violentata dai soldati. Ora vive come profuga coi tre figli, di cui Helen è la minore. Non ha nessun reddito. L’unica cosa che ogni tanto fa sono le treccine, ma guadagna 10 birr (0,10€) alla volta… Un giorno è svenuta mentre era in ambulatorio: hanno capito che non mangiava da giorni. Ma la dignità di questa donna non le aveva permesso fino ad allora di chiedere un aiuto economico. Suor Betty lo ha subito chiesto a suor Laura, che glielo ha garantito.

Provo una tristezza ma anche una dolcezza infinite per queste persone. Ecco gli effetti della guerra che andavo cercando. Ma vedo anche tanta forza, tanta voglia di andare avanti, tanta gratitudine per quando si ha oggi. Una parola sento ripetere dalla missionarie: resilienza. È la definizione più calzante di questo meraviglioso popolo.

È passata la mezzanotte mentre scrivo, ma non posso tralasciare l’ultima persona di cui vorrei raccontare: suor Marjorie. La persona con cui suor Laura ha condiviso più anni ad Adwa. Inglese di Liverpool, sentirla parlare è pura musica. Piccolina, un poco incurvata dalle sue 86 primavere. Per dare sollievo alle gambe gonfie, sfreccia in giro per la missione sulla sua macchinina elettrica, col velo svolazzante. La dolcezza e la premura fatte a persona. Ho pensato mille volte anche a lei quando sapevo dei bombardamenti sulle montagne qua attorno, del rifugio sotto la palestra, dei controlli dei soldati eritrei dentro alle mura della missione. Dopo quattro anni lontana, si ricordava benissimo di me, mi ha accolta come una nonna quando la nipote torna a trovarla. Oggi l‘ho trovata assorta a rimirare i gattini nati da poco, allattati da mamma gatta. Me li ha indicati in silenzio, per non interrompere questo momento speciale. Ero di corsa ma ho pensato che era l’ultima occasione per fare due chiacchiere con lei prima di ripartire. Le ho detto che avevamo appena fatto una chiacchierata on-line con una fondazione italiana rinomata per la riabilitazione, e che ci sono prospettive per una collaborazione sul progetto di recupero dei ragazzi amputati e di formazione del personale locale. Mi ha ringraziato tanto per il lavoro che facciamo, per il grande aiuto che la nostra associazione ed i suoi donatori non ha fatto mancare durante i momenti più difficili. Qualcosa si sblocca nei suoi ricordi, parliamo per un tempo lunghissimo. Mi racconta del suo incontro con le operatrici di Medici Senza Frontiere che erano passate da Adwa prima di morire in un agguato lungo la strada (“erano due donne, si chiamavano entrambe Maria, io avevo mostrato loro la statua della Madonna sul piazzale e quella che poi è stata uccisa aveva apprezzato tanto la dedica. Ho ancora il suo numero satellitare memorizzato ed il suo viso bene in mente, la penso spesso”), di come hanno affrontato giorno per giorno le emergenze cercando di aiutare tutti, anche i soldati che avevano bisogno di acqua, di come lei stranamente non abbia mai provato paura, avendo già vissuto la guerra (mondiale) da bambina e confidando in Dio. È un fiume in piena, la prima che mi racconta cosa davvero ha passato. Non ha timore di ripercorrere momenti terribili. Forse la sua età glielo permette, i ricordi occupano uno spazio importante nella sua mente. Sono stata onorata che abbia scelto di condividerli con me. Mi raccomanda di tornare, mi ribadisce di essere stata contenta di rivedermi. Mi chiede di farmi portavoce del suo grande ringraziamento a tutti gli amici di Adwa. Se avete letto fin qua, spero di essere stata capace di riportare le sue parole degnamente.

GRAZIE!

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  • Entriamo nella vita quotidiana di Adwa, nel lavoro delle infermiere in ospedale, nelle storie delle pazienti che ancora portano i segni della guerra......

  • Cecilia (in foto), infermiera e formatrice con esperienze internazionali, condivide con noi le riflessioni e le emozioni di questi primi giorni di volontariato in Etiopia. “Eccomi ad Adwa: mi sembra ancora incredibile! Conoscere persone, vedere un paese africano per la prima volta, farmi stupire dal......