Il carcere di Adwa

Il carcere di Adwa

C’è un tenue odore acido ad Adwa. E’ diffuso, è caldo, è ventoso e polveroso eppure non dà fastidio.

Va a ondate, a seconda del posto in cui ci si trova. Dal barbiere, per esempio, diventa quasi piacevole mentre se ci si avvicina a qualche vicolo della città inizia ad incunearsi, prima nel naso, poi risale piano gli occhi e infine la testa, e un lieve tremore toglie, per pochi secondi, la sensazione di essere in perfetto equilibrio.

Ma quando ci si avvicina nei posti più difficili, dove l’umanità è in continua lotta con se stessa, con la propria dignità e la definizione stessa di genere umano, quel lieve tremore si trasforma in stordimento, di testa prima, di arti e di cuore poi.

Nel carcere di Adwa, una squadrata e perfetta simbiosi di linee che si staglia nell’azzurro del cielo durante la stagione secca, 800 anime vaganti o sedute, dallo sguardo vitreo, rabbioso o malinconico, sono prigioniere del governo d’Etiopia, in questa struttura costruita dal governo italiano all’epoca della colonizzazione. Un ponte fra disordine e ordine, fra povertà e sfarzo, tra popolo inferiore e superiore. Un ponte tra la prima e seconda guerra mondiale.

Un miscuglio di crimini e di materassi ammassati desiste le guardie a compiere il proprio lavoro, frenate dall’assenza di minime condizioni di sicurezza.

I pasti non sono previsti e sono lasciati al buon cuore dei parenti, in questo andirivieni di injera e scirò, guardato torvo da coloro che parenti non ne hanno o che del cibo non ne ricevono che gli avanzi.

L’odore acido arriva ai suoi massimi picchi quando si scopre che la doccia è concessa una volta la settimana e che i bagni, banalmente indecorosi, sono usufruibili solamente di giorno e solamente ora, forzatamente come prevede la legge, i prigionieri stanno costruendo una fossa biologica comune.

Nella sezione femminile le 40 donne imprigionate sono vittima per lo più dei debiti. L’intraprendenza prima sperata e sognata è stata soppiantata dai mancati pagamenti di piccoli finanziamenti ottenuti per iniziare una nuova attività, una nuova vita e un decoroso futuro per i propri figli. Figli che siedono a fianco delle madri, all’interno della prigione, denutriti, in balia di malattie e privati dei giochi più elementari.

In tutte le civiltà e in tutte le epoche sono esistite le torri di Babele e i gironi infernali ma nessuna, a memoria d’uomo, contemplava che un bambino ci si potesse aggirare liberamente.

Reportage di Carolina Paltrinieri