“Così tanto in così poco: dovete venire a vedere”- Testimonianza di Enrico Atti

“Così tanto in così poco: dovete venire a vedere”- Testimonianza di Enrico Atti

Il nostro collaboratore Enrico Atti, tornato ad Adwa 16 anni dopo la prima volta, ci racconta le sue impressioni nel tornare alla missione Kidane Mehret.

 

Raccontare il mio ritorno ad Adwa, 16 anni dopo la prima volta, mi è difficile. Mi viene difficile trovare le parole per cominciare questa testimonianza.
C’è così tanto, ad Adwa, in così poco, che ogni inizio mi sembra sbagliato.

Proprio ora mi rendo conto che è esattamente come ha sempre detto Suor Laura, fondatrice della missione, a tutte e tutti. Quasi un mantra, ripetuto a volontari, collaboratori, dirigenti, funzionari, politici, finanziatori di ogni nazionalità e provenienza:
“Devi venire qui a vedere. Devi venire qui ad Adwa a vedere con i tuoi occhi.”

Fu così anche con me, 16 anni fa: ed è così anche oggi. Dovevo venire ad Adwa, a vedere con i miei occhi.

Bisogna arrivare qui, per vedere i benzinai chiusi con le catene per la mancanza di carburante. E che appena vengono riforniti, improvvisamente, si riempiono di bajaj (i tuk tuk, i mini taxi a tre ruote di produzione indiana) pronti a svenarsi per un pieno.
Per vedere i campi profughi, eredità della terribilmente inutile guerra civile, pieni di donne e bambini, spesso a fianco di scuole, dove si vive anche senza acqua e servizi igienici.
Per osservare donne e bambine che arrivano al mercato settimanale dopo aver camminato per ore sotto il sole, caricando sulle spalle prodotti e mercanzie, che cercheranno di vendere sedute per terra, appoggiate il proprio sacco.
Per passeggiare nelle strade, sia quelle più polverose in terra battuta, che quelle asfaltate di recente, o ricoperte di pavé per meglio drenare le torrenziali piogge stagionali.
Tutto sotto la luce del cocente sole, tutto davanti agli occhi: le difficoltà di una città che cerca di riprendersi, nonostante la scarsità di aiuti ed attenzioni da parte di politica e istituzioni.

Donne e bambine al mercato di Adwa.

Non c’è solo questo, ad Adwa: ovviamente, c’è la missione Kidane Mehret. Ancora, e sempre di più, un’isola felice, un’oasi del deserto, una luce di speranza in un futuro che altrimenti, sarebbe buio.
La missione non è cambiata tanto negli ultimi 16 anni, anche se qualche nuova costruzione c’è (ad esempio, l’ostello in cui dormono e mangiano i volontari, i nuovi magazzini, l’orto del progetto agricolo) ma da un punto di vista visivo, è più o meno come me la ricordavo.

Sono cambiate le persone, invece: in 16 anni ovviamente i bambini e i ragazzi non sono più gli stessi (chi nel 2009 entrava a scuola oggi è già nel mondo del lavoro, o sta frequentando l’università – e la cosa non può che farmi sentire tremendamente vecchio, e questo vale ad ogni latitudine), ma anche tra le lavoratrici e i lavoratori della missione, comprese le suore salesiane, ci sono tanti volti nuovi.

E questo non può che essere un ottimo segnale: se è vero che “change is the challenge“, ovvero che la vera sfida è il cambiamento, qui la sfida è stata vinta. Il ricambio anagrafico e organico, quello “normale” di ogni realtà lavorativa, c’è e funziona: arrivano persone che entrano a far parte del personale, che viene correttamente formato ed entra in servizio, senza disperdere le conoscenze acquisite dal suo predecessore.
Sembra ovvio che debba essere così, ma siamo tutti a conoscenza di almeno una realtà lavorativa, anche nella nostra efficiente Emilia-Romagna, dove questo non avviene.

E poi, l’Ospedale.
Sedici anni fa Suor Laura indicava con un dito l’area dove avrebbe voluto avviare questo incredibile progetto, che pareva mastodontico.
A pensarci bene forse Suor Laura indicava un’area leggermente più a sinistra di dove è effettivamente sorto, ma questi sono dettagli: l’Ospedale è stato ed è un progetto effettivamente mastodontico, eppure è sorto.
E’ aperto ed operativo: è un piccolo formicaio di pazienti, lungodegenti, infermieri, medici, visitatori, inservienti ed operai.
Sappiamo bene che a volte sedici anni non bastano per costruire un ospedale in Italia, figuriamoci in Etiopia: eppure, con pazienza e perseveranza, fede e fiducia, si è arrivati a questo risultato.
(Ok, servono anche un pochino di bonifici: permettendomi di parafrasare Suor Laura, se il verbo si è fatto carne allora “la solidarietà deve farsi IBAN”) 

L’Ospedale è già operativo ma ancora da terminare: è un concetto un po’ strano per noi abituati a certificazioni di agibilità, ma la legislazione etiope è differente. Molti reparti sono ancora in sedi provvisorie, eppure riescono già a poter dare assistenza a migliaia di pazienti: circa diecimila solo nell’ultimo anno, ed a ospedale ultimato saranno molti di più.

A tanti di questi è stata cambiata la vita: se è facile comprendere che un parto cesareo e una adeguata assistenza post operatoria possano salvare la vita a madre e figlio/a, è meno immediato immaginare come possa cambiare tutto per una persona con difetti di vista ricevere un paio di occhiali.
Così come possono farlo quelle che a noi sembrano piccole prestazioni di natura odontoiatrica o ortopedica.
La malaria è semplicissima da curare, oggigiorno, in Italia: in Etiopia spesso non viene curata e diventa mortale.
Il poco, qui, diventa sempre tanto, sia nel bene che nel male: e anche le piccole visite e semplici diagnosi dell’Ospedale, in prospettiva diventano punti di svolta.

L’Ospedale, quasi senza che ce ne si renda conto, ogni giorno salva decine di vite.

E questo è solo l’inizio: lo sviluppo che ha avuto la missione, dalla famosa “tenda blu” dei primi anni ’90 fino ad oggi, ci dimostra che l’Ospedale può seguire la stessa strada virtuosa, lavorando in sinergia con le istituzioni, offrendo formazione e posti di lavori agli abitanti di Adwa e del Tigray.
Ecco, sulla sinergia sicuramente c’è tanto da lavorare: d’altronde, la tregua faticosamente raggiunta dopo l’ultimo conflitto ha lasciato spazio ad una sorta di “guerra fredda” che mette continuamente a rischio i delicati equilibri raggiunti, e rende incredibilmente e inutilmente complicata la realizzazione di ogni cosa.

Ma la Missione in una trentina d’anni ha già affrontato due guerre e una pandemia, le sue donne e i suoi uomini hanno forza e tenacia e non molleranno, come non hanno mai mollato e mai abbandonato la missione e la popolazione di Adwa.
E da Cento, così come da tutta Italia (e non solo), l’aiuto è sempre arrivato.
Ad Adwa si stanno facendo grandi cose, e c’è tanto da fare e da dare, ma inevitabilmente si riceve sempre di più.

Vorrei dirvi di fidarvi di me e delle mie parole, ma nonostante tutto il mio impegno, penso di non essere riuscito a spiegarvi bene come avrei voluto.
E’ inutile, ha ragione Suor Laura.

Dovete venire qui a vedere. Dovete venire qui, ad Adwa, a vedere con i vostri occhi.

 

Testimonianza di Enrico Atti

Fotografie di Carolina Paltrinieri

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