01 Set Tre ricordi di Giampaolo – di Niccolò d’Aquino
Il tempo che passa non serve a lenire il dolore e lo sconcerto che la morte provoca in chi è rimasto indietro. Ma il passare dei giorni serve forse per “inquadrare” meglio le persone nel ricordo di ciò che sono state e di ciò che hanno fatto.
Sono ormai molte settimane da quando Giampaolo Fasolo ci ha lasciati. In tanti, prima di me, hanno scritto di lui. E lo hanno fatto, sicuramente, con la maggiore cognizione e competenza dovuta alla quotidiana frequentazione con lui che io non ho avuto: Suor Laura, la moglie Leda, i colleghi medici, tutti gli amici e i volontari di Adwa che in questi lunghi anni hanno potuto sperimentare da vicino la tranquilla ma decisa passione di Giampaolo per il bene e per “fare bene il bene”, hanno scritto e possono scrivere testimonianze migliori della mia.
Quindi non ricorderò quanto Giampaolo ha fatto nella sua carriera professionale di primario e, poi, di volontario tra i fondatori di Aspos e nelle missioni in Africa e in particolare in Etiopia. E quanto lui abbia contribuito allo sviluppo della Missione di Adwa. A me, ogni volta che penso e parlo di Giampaolo, vengono in mente anche altri fatti. Per esempio: tre episodi minimi che mi riguardano. Sono davvero piccoli fatti ma, spesso, le piccole cose danno il segno della grandezza di una persona.
Era il 2011. Avevo finito di scrivere i testi di La tenda blu, il libro su quanto di straordinario Suor Laura Girotto e le altre sorelle salesiane avevano fatto e continuavano a fare in Tigray. Bisognava, però, correggere le bozze: non avrei mai dato alle stampe qualcosa che Suor Laura non avesse approvato. «Bene, allora: vieni ad Adwa e guardiamo assieme le bozze» era stato l’invito. E quando Suor Laura “invita” … bisogna soltanto ubbidire. E, poi, per me andare a Kidane Mehret era sempre una gioia. Ma era la prima volta che ci andavo senza avere nulla da scrivere: tutte le altre volte lo avevo fatto per il settimanale femminile di cui all’epoca ero inviato. L’unico compito che, invece, avevo questa volta era la correzione delle bozze. Suor Laura, però, aveva da fare, tanti gli impegni. E al giornalista che le ronzava intorno, portando speranzoso sottobraccio il fascicolo delle bozze, non aveva troppo tempo da dedicare. E così, una sera in mensa, Giampaolo Fasolo con la sua solita voce gentile e calma, mi dice: «Devo chiederti un favore. Avrei bisogno che tu fotografassi gli interventi e le operazioni alla mano che faccio in questi giorni». La paura che avevo del sangue e delle sale operatorie non mi impedì di capire che dietro c’era la manina di Suor Laura: di foto di suoi interventi Giampaolo doveva averne una tonnellata, questo era solo un ottimo sistema per tenere occupato il noioso e petulante giornalista.
Negli anni successivi non sono mai riuscito a far confessare né a Suor Laura né a Giampaolo il complotto ai miei danni: al massimo un furbo sorrisino da finti ingenui. Ma quelle fotografie, che conservo, mi sono servite, eccome! La notte precedente al mio primo e finora unico servizio fotografico/chirurgico praticamente non chiusi occhio. Presi però una decisione professionale: capii che, per evitare di svenire, dovevo concentrarmi sull’incarico, per quanto finto fosse. Avrei guardato i tagli, il sangue e le successive cuciture soltanto attraverso il mirino della macchina fotografica concentrandomi sull’inquadratura e sulla messa a fuoco dell’immagine. Così feci. Nel contempo, Giampaolo mi illustrava passo passo quello che stava facendo. Le due cose – il dovermi concentrare sul mirino e l’ascoltare le spiegazioni mediche – mi fecero fare un bel salto di qualità: da allora, non ho più paura di nessuna operazione medica. Grazie, Giampaolo!
Il secondo piccolo episodio ebbe invece come teatro la casa di Leda e Giampaolo a Camposampiero. E questa volta, protagonista fu mia moglie Gabriella. Eravamo andati a trovarli. A un certo punto Gabriella racconta a Giampaolo che da tempo le fa male una mano, in particolare all’attaccatura del pollice. I medici sono abituati a essere sempre perseguitati da amici e conoscenti; a pranzo e a cena, non c’è scampo, nessuna pietà. «Ho un dolorino…». Giampaolo prende la mano di mia moglie, tocca, gira, smanetta e poi: «C’è bisogno di un tutore». Bene, allora, quando torneremo a casa andremo da un medico nel suo studio o in un ambulatorio. «Ma no! Facciamo qui, subito». Ma come qui, in casa vostra? Leda, che aveva capito tutto, si era già alzata ed era andata in cucina. Ci spostiamo anche noi. E, sotto gli occhi stupefatti dei profani, Giampaolo con l’aiuto di Leda dà vita a un “tutore”: pollice mezzo dentro e una parte della mano. Gabriella lo ha portato per molte settimane, fino a quando il dolorino è sparito. «La maggior parte delle volte» ricordo che disse Giampaolo mentre sotto le sue mani si materializzava il tutore «gli interventi si possono fare con cose o strumenti semplici e un po’ di inventiva, soprattutto se ci si trova in situazioni di emergenza o in paesi dove la tecnologia è indietro». E così mi ricordai di quando in quei giorni da fotoreporter di sala operatoria a Adwa (una sala che, in realtà, era semplicemente una delle aule della scuola della Missione) avevo visto Giampaolo fissare una cucitura post-operatoria al polso con un … bottone. Sì, un bottone da camicia. «Questo c’è, questo abbiamo. E funziona. Tanto, tra qualche giorno lo togliamo». Andò così. E io imparai un’altra lezione. Grazie, Giampaolo!
Il terzo episodio ha a che vedere con una camminata ad Adwa. Era domenica, giorno libero. Qualcuno propone di andare a una fonte. Non sapendo la distanza accetto. Prima di avviarci scopro, però, che tra andare e tornare sarebbero stati anche più di dieci chilometri. Una cosa da nulla per marciatori da montagna come Leda e Giampaolo. Ma io sono pigro. «Non vengo, andate voi. Ci vediamo a pranzo». «Ma no, dai: vieni. Così parliamo e ti racconto un po’ di cose». Se a un giornalista prometti che gli racconti delle cose… quello abbocca subito. E così, marcia fu. Piacevolissima, piena dei progetti e dei sogni che Giampaolo mi trasmise sul futuro della Missione. Mi stette sempre al fianco. A chiacchierare lenti e ultimi della fila, con Leda velocissima davanti e un paio di altre donne: c’era Nives, ricordo. Ma al ritorno, avevo carburato anche io; come i diesel sono lento ma una volta che si riesce a farmi partire non mi fermo. Finì che, ridendo, facemmo di corsa gli ultimi cento metri. E ancora una volta: grazie, Giampaolo!