10 Ott Diario di viaggio di Silvia #1_2025
Anche quest’anno vorrei condividere con voi la nuova avventura di un viaggio ad Adwa, al fianco della fidata Carolina.
Ogni volta è emozionante tornare a queste montagne rocciose, a questi paesaggi poveri ma affascinanti, ai profumi forti di caffè, incenso, ma anche di sudore per la fatica di ore di cammino con pesi sulle spalle.
Dopo uno scalo ad Addis Abeba in cui salutiamo suor Laura, ad accoglierci all’aeroporto di Axum troviamo Leda assieme a Showit, che conosciamo da quando era bimbo, orfano di padre, piccolo ometto che voleva provvedere alla famiglia ed ha potuto frequentare la scuola grazie all’adozione a distanza. E’ un orgoglio vederlo oggi autista dell’ospedale e papà di una bimba bellissima. Presto guiderà le ambulanze da poco arrivate dall’Italia, donate dall’aeroporto di Malpensa e rimesse a nuovo dal Rotary di Cento. Ma la burocrazia locale ci sta facendo perdere un sacco di tempo per rilasciare la targa… ci vuole tanta pazienza!
In missione ritroviamo le infaticabili volontarie di ASPOS, infermiere, ostetriche, dottoresse tornate per fare formazione al personale sanitario locale ed organizzare al meglio i reparti.
Riabbracciamo anche i cooperanti e volontari residenti, che ogni giorno portano avanti i nostri progetti così impegnativi. Alla squadra di Antonio, Alberto, Giovanni, Cecilia, si è unito da qualche mese anche Vittorio, ingegnere in pensione che con enorme pazienza ha preso alla mano la manutenzione di tutte le apparecchiature elettroniche dell’ospedale. Potete immaginare quanto sia difficile per lui mantenere in funzione attrezzi così delicati, in una cultura in cui l’uso della tecnologia non è per nulla abituale, e quando si rompe qualcosa ci si arrende alla fatalità accantonandolo e facendo senza…
Carolina l’ha già ribattezzato “Vittorio aggiustatutto”!
Non appena ci siamo riprese dal viaggio, partiamo alla volta dell’ospedale armate di macchina fotografica e videocamera assieme ad Antonio, il nostro direttore dei lavori, per documentare le novità.
La prima cosa che colpisce lo sguardo è l’accantieramento per la palazzina amministrativa, interamente sostenuta dalla Cooperazione Italiana in collaborazione con UNOPS. L’impresa è la stessa dell’edificio principale dell’ospedale, una certezza in termini di qualità. Notiamo che hanno scavato un grande buco per le fondamenta e stiano procedendo speditamente con i piloni di cemento armato. Contano di finire in meno di un anno l’edificio che accoglierà gli uffici amministrativi, le sale riunioni ed ospiterà le aule della scuola infermieri. Tanti spazi temporaneamente dedicati a queste funzioni potranno così diventare nuove camere di degenza ospedaliera.
L’agenzia delle Nazioni Unite ha portato standard di sicurezza mai visti prima in Etiopia: alte transenne coperte da cartelli con indicazioni dei dispositivi antinfortunistici da indossare, giubbini catarifrangenti, obbligo di disinfezione delle mani… Alberto ci dice ridendo che i primi giorni si vedevano modi molto originali di indossare i super caschetti: a rovescio con la rotella per la regolazione sulla fronte a mo’ di terzo occhio, con fazzoletti sotto per non rovinare le treccine, un po’ di tutto!
Quando andiamo a salutare suor Marjorie, convalescente da una brutta influenza, lei ci chiede subito se abbiamo visto il nuovo scavo. Racconta: “ l’impresa è arrivata con un Bobcat e in qualche giorno ha scavato quel buco gigantesco in mezzo al terreno roccioso. Ma ricordo benissimo quando abbiamo costruito le fondamenta di questa missione. Gebre Khristos, il nostro capo dell’amministrazione, allora era un teenager e ci aiutava nei lavori. Gli uomini scalpellavano roccia per roccia, le donne scendevano fino al fiume a riempire giare da 25 litri d’acqua e li versavano piano piano negli scavi” – io e Carolina ricordiamo di aver visto quelle scene nelle foto dell’archivio dell’associazione – “Gebre khristos diceva che un giorno nessuno dei loro figli avrebbe dovuto fare quelle fatiche immani, sperava che le macchine li avrebbe risparmiati… e così è stato per fortuna!”
Con Antonio passiamo in rassegna il materiale che abbiamo spedito con grandi sforzi dall’Italia: la nuova incubatrice, i gruppi di continuità per garantire il funzionamento delle macchine salvavita ecc. anche durante i ricorrenti blackout, gli infissi per completare l’ala che ospiterà la TAC e gli ambulatori per il trattamento di malattie infettive gravi come TBC, i primi arredi per i reparti. Tanti altri sono in corso di sdoganamento tra Gibuti e Macallè, un lavoro logistico ed un impegno economico enorme per le nostre forze, che non avremmo potuto affrontare senza l’aiuto fondamentale di Fondazione Helmsley e di Unops!
Ritroviamo in ospedale la dottoressa Edom, provata da tante ore di turno in pronto soccorso per sostituire il dott. Maebel (temporaneamente impegnato in un corso di formazione). La affianca per un mese Ludovica, fresca di laurea in medicina ma già esperta sul campo.
Fortunatamente l’ordine del Cottolengo ha implementato le missionarie a supporto del nostro progetto, inviando una nuova suora sanitaria: suor Rose ha sostituito Betty in fisioterapia, liberandola per affiancare sister Pauline nel coordinamento del personale infermieristico, così da potersi dividere tra pronto soccorso e maternità.
Ci presentano il nuovo chirurgo: il dott. Kibrom ora garantisce continuità di servizio, mentre prima dovevamo sempre aspettare medici inviati dal governo a rotazione (e per un mese eravamo rimasti senza!). Grazie alla donazione degli amici del Progetto Abraham, per questo primo anno il suo stipendio è garantito. I volontari sanitari ci confermano che è stato un ottima new entry, è competente e desideroso di migliorare le sue conoscenze nell’incontro coi colleghi italiani. Carolina gli chiede subito se può documentare gli interventi del giorno dopo, si danno appuntamento per le 8.30.
La mattina dopo, Carol si veste con camice e cuffia per entrare in sala operatoria. Non la invidio, non avrei lo stomaco… ma lei è ormai abituata. Il primo paziente è un bambino di quattro o cinque anni. La nostra fotografa familiarizza subito col piccolo: si mette accucciata alla sua altezza, gli chiede in tigrino come si chiama, gli fa vedere la macchina fotografica, scatta una foto poi gliela mostra. Il piccolo è rassicurato, la lascia fare.
Nel frattempo parlo con Kibrom, vedendo che scruta il corridoio: il paziente successivo sarà un ragazzo che ha combattuto in guerra, un bombardamento gli ha causato un’emiparesi, ha ancora schegge di bomba in testa e nel corpo che gli provocano dolori continui… Le conseguenze delle guerre non si esauriscono mai velocemente. Il dottore sa che arriverà tardi, ed io sorrido pensando alla gestione africana del tempo, ma mi sbaglio: mi ricorda che non è facile trovare un trasporto da un villaggio lontano, la benzina scarseggia e costa tantissimo, pochi oggi possono permettersi di pagare un minitaxi locale, il bajaji, per lunghi percorsi. Come mi ricorda sempre suor Laura, non abbiamo le categorie mentali per comprendere appieno le loro difficoltà!











