Diario di viaggio di Silvia 2024 – Ritorno in Etiopia

Diario di viaggio di Silvia 2024 – Ritorno in Etiopia

Era da novembre 2019 che mancavo da Adwa, e che Adwa mi mancava.

Dall’Italia, ho trascorso gli anni della guerra in Tigray cercando ogni giorno briciole di informazioni, scandagliando il web dalle grandi testate internazionali alle tv locali, oppure condivise furtivamente da qualche tigrino sui social nei rari momenti di accesso alla rete, o riportate in dati incompleti  e statistiche asettiche delle agenzie ONU.

Mi ero immaginata cosa volesse dire vivere una guerra per le persone che avevo conosciuto, con cui avevo lavorato, che mi avevano preparato il pranzo o aiutato ad organizzare le adozioni a distanza. E stavo male per loro. Pregavo perché fossero almeno vive.

Avevamo appreso con cautela la notizia della firma del cessate il fuoco a fine 2022: molti i territori ancora contesi, pochi gli aiuti che arrivavano alla popolazione. Ma – lentamente – i servizi essenziali sono tornati, gli accessi ripristinati, alcune scuole ed alcuni ospedali sono ripartiti.

Ed ora eccomi qui, finalmente tornata di Etiopia! Altre colleghe ed amici mi avevano preceduto, raccontato, mostrato foto e video. Avevo preparato un bel pelo sullo stomaco, pronta a tutto…

Parto assieme al professor Fabio Catani, primario di ortopedia e docente universitario a Modena. Ho sentito tanto parlare di lui: ha rimesso in piedi suor Laura tre anni fa con doppia protesi alle ginocchia. Ora è riuscito a ritagliarsi qualche giorno di ferie per venire volontario ad operare al Kidane Mehret!

Ad Addis Abeba sembra tutto come prima, suor Laura mi dice che hanno addirittura piantato alberi e cespugli fioriti su tutte le strade che portano verso il centro della capitale per dare l’idea di un paese in salute. Per non far vedere che, a causa dei soldi spesi per i droni armati, non hanno potuto ripagare i debiti e sono andati in default. Nascondendo le persone che muoiono di fame, compresi i dipendenti statali che non stanno ricevendo gli stipendi…

Ci accolgono Abel, che cura le nostre relazioni con le istituzioni, e il medico direttore del nostro ospedale, Maebel, che finalmente conosco di persona. Mi porgono grandi abbracci e tanti ringraziamenti a tutti gli amici italiani che non li hanno lasciati soli. Ma sono io che devo ringrazio loro per quello che stanno facendo, instancabilmente. Suor Laura li ha appena trascinati tra uffici ministeriali statali, regionali, ambasciata ecc. per ottenere i visti per tutti i medici volontari italiani e per far mettere “nero su bianco” le promesse fatte dai ministri sul sostegno economico all’assistenza sanitaria. Su tante cose, la nostra salesiana l’ha spuntata anche stavolta: come sempre un tornado travolgente di solidarietà oltre la burocrazia!

Atterriamo col volo interno a Macallè, la capitale regionale del Tigray. Gli obiettivi della giornata sono due: visitare un centro per amputati di guerra e concordare col ministro della sanità regionale il percorso per prepararli e dotarli di protesi.

La prima tappa è quindi al centro grandi amputati, il pugno allo stomaco che aspettavo un po’ sulle spine. Entriamo in una polverosa zona recintata, dove vediamo tanti moduli abitativi in lamiera da cui escono al nostro arrivo decine di ragazzi e ragazze in carrozzina. Sono tutti giovanissimi, sia maschi che femmine. Mandati al macello sul campo di battaglia a 18 anni o meno e tornati senza gambe. Qualsiasi sogno di vita stroncato da una chiamata alle armi insensata. Suor Laura mi fa capire meglio il motivo del numero così alto di vittime: l’uso dei droni per bombardare è chirurgico, colpisce silenziosamente e velocemente senza lasciare il tempo scappare al riparo.

I ragazzi vengono portati in fila davanti al piccolo ambulatorio. Sono stati selezionati dal responsabile del centro, ma non sappiamo con quale criterio. Siamo consapevoli che si dovrà fare una dolorosa scelta: a chi dare l’opportunità di una nuova vita?

Cominciano le visite. I ragazzi si spingono con le braccia dalla carrozzina al lettino. Alcuni devono essere aiutati di peso, hanno poco tono muscolare. Il dottore verifica la lunghezza dei monconi, deve capire quali possono reggere la protesi, non tutti sono adatti. Purtroppo tanti hanno una doppia amputazione al di sopra del ginocchio, quindi più complessi per la gestione degli arti artificiali: non potranno comunque fare le scale, impiegheranno più tempo nella riabilitazione per l’equilibrio ed i movimenti, dovranno contare su grande forza di volontà. Alcuni di loro però sono ancora visibilmente traumatizzati anche psicologicamente, potrebbero non reggere.

Mi rendo utile registrando i loro nomi, età, misure, poi Catani si appunta le sue valutazioni. Vorrei fare qualche foto per testimoniare la tragicità della situazione, cerco di farle di spalle discretamente ma temo di urtare la loro sensibilità. Servono anche foto dei monconi, evitiamo i visi. Dopo una decina di visite, ci sollecitano dal ministero: il ministro ci attende. Lasciamo in sospeso la decisione di chi avrà l’opportunità di entrare nel programma. Leggiamo la delusione dei tanti che non hanno l’opportunità di essere nemmeno visitati.

È tutto davvero difficile.

Corriamo all’appuntamento con il ministro regionale della Sanità, dott. Amanuel. L’edificio è fatiscente, i muri macchiati, le scrivanie con adesivi di agenzie umanitarie scoloriti. Ma il ministro ci accoglie calorosamente tutti, anche lui ci ringrazia per quanto facciamo per il suo popolo. Suor Laura parte subito all’attacco con i punti critici del progetto: la scarsa valutazione di chi è effettivamente pronto, la mancanza di assistenza psicologica, il rischio che i dottori etiopi coinvolti nella formazione da parte degli italiani cerchino presto altre opportunità lavorative. Ma il ministro fa alcune cose che mi stupiscono: per prima cosa ascolta, con attenzione, senza interrompere. Prende appunti. Poi non fa grandi promesse, ma spiega quali sono le direzioni in cui si sta muovendo, per piccoli passi, con grande consapevolezza, realismo, conoscenza dei numeri e della complessità della situazione sanitaria in Tigray. Già da alcuni mesi ha dimostrato reale collaborazione sostenendo gli stipendi del personale sanitario al Kidane Mehret Hospital ed inviando medici. Con un inglese fluente ci dice che sa di non poter risolvere i problemi in poco tempo, ma è anche fiducioso che nel tempo, seminando, si raccoglieranno i frutti. Ha fatto un censimento di tutti i sanitari che lavorano in regione, divisi per specialità, sa che gli psicologi e psichiatri sono troppo pochi per i bisogni che ci sono, e che nella cultura locale non è ancora accettata appieno questa figura. Ma intende potenziare i servizi, formare, individuare centri specializzati sui diversi ospedali. La stanza in cui facciamo l’incontro viene illuminata da una bellissima luce proveniente da ampie vetrate, ora mi sembra più bella, dignitosa. Vedo con nuovi occhi chi oggi è alla guida di questo popolo. Ci salutiamo dopo aver concordato alcuni impegni concreti, con fondate speranze.

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A questo punto, per poter sfruttare la presenza del dott. Catani, si scelgono 3 ragazze ed 1 ragazzo da avviare al percorso e si decide al volo di portarli all’ospedale di Adwa per effettuare gli interventi chirurgici necessari a preparare i monconi alle protesi. Partiamo che ormai è buio, per arrivare ad Adwa dovremo svalicare il Tembien (2600m) seguendo una strada tortuosa nel nulla per 3 ore e mezzo.

I tornanti mettono duramente alla prova i ragazzi che non hanno modo di puntellarsi sui sedili…

Arriviamo ad Adwa alle 10.30 di notte. La festa di San Giovanni Bosco ormai è finita, ma ci hanno tenuto le pizze fatte dal mitico Antonio, il direttore di cantiere che se la cava alla grande in cucina.

Andiamo a letto distrutti. La mattina colazione entro le 8, ma mi sveglio in anticipo: oltre alla cantilena dagli altoparlanti dell’autorità religiosa di Adwa, sento un altro suono irresistibili: le voci dei bimbi che entrano nei cancelli della missione per venire a scuola.

Apro la finestra e dal terrazzo rivedo il mio panorama preferito: la nebbiolina che si alza sulle montagne, i fiori bellissimi delle aiuole, i bimbi che risalgono chiacchierando la salita verso le aule con le loro divise rosse e blu. Mi preparo in fretta, non resisto, devo fotografarli e condividerlo con tutti voi.

Mi salutano, un po’ ridono nel vedere il mio colorito cadaverico, qualcuno mi batte cinque. Giro l’angolo verso il refettorio, ma perché mi sento un groppo alla gola? Proprio ora?! Si aprono le cateratte non riesco a nascondere il pianto, e trovo preso le spalle di Leda e Loredana, qui da alcuni giorni, su cui singhiozzare: piango di felicità!

Sono tornata, sono tornati, possono ancora avere una vita lieta…

Silvia