Diario di viaggio di Silvia 2#2025

Diario di viaggio di Silvia 2#2025

Ci si sente di casa subito, ad Adwa.

Sarà perchè è la sesta volta che vengo? O perchè conosco un po’ tutti? Credo però che questa sensazione sia vissuta anche da tanti che vengono per la prima volta: dal team di chirurghi di Emergenza Sorrisi che ha fatto oltre 60 interventi maxillofacciali la settimana scorsa, alla responsabile ONU-Unops in trasferta per monitorare il progetto, l’ospitalità accogliente della struttura, con le cuoche che ci coccolano, i bambini della scuola che non vedono l’ora di imparare il tuo nome e salutarti a ricreazione, i paesaggi affascinanti dal terrazzo al mattino entrano subito nel cuore.
Nei giorni feriali, i tantissimi collaboratori della scuola e dell’ospedale, gli studenti ed i pazienti riempiono questo piccolo villaggio come un’alveare, ognuno al suo posto. Mentre tra le aule ed i cortili il clima è sempre allegro e vivo, negli ambulatori dell’ospedale invece si respirano spesso il dolore, la miseria, la disperazione arrendevole. Pensi sempre che potremmo fare di più, che i bisogni superano le possibilità di soluzione, che per ogni persona curata ce ne sono troppe che non hanno accesso. Ti appassioni alla causa, non ci dormi la notte, provi a mobilitare tutte le risorse che ti vengono in mente.

Ludovica, Luciana, Nadia e Marina – alla terza o quarta esperienza – conoscono bene i bisogni, i punti di forza e di debolezza della nostra struttura. Hanno preparato da casa il lavoro da fare con medici ed infermieri per potenziare le competenze, migliorare l’organizzazione del lavoro, collaborare nell’implementazione dei servizi.
Vicky ha preparato un corso di BLSD, le abbiamo portato dall’Italia sia il defibrillatore per esercitazioni (donato da ASPOS) che quello da tenere in reparto (donato tramite Amoa). Cecilia, la responsabile della formazione degli infermieri, ha ottenuto l’accreditamento del corso presso l’associazione nazionale di categoria, così gli attestati saranno riconosciuti ufficialmente. L’opportunità di partecipare al corso è offerta a tutti gli operatori sanitari dell’ospedale, suddivisi in sei gruppi per non lasciare scoperti i reparti.

Vicky fa il corso in un inglese fluente, ma si ferma spesso per chiedere se hanno capito.
In base alle domande che fanno, si rende conto che a molti partecipanti, anche infermieri, mancano proprio le basi del funzionamento del cuore… Le chiedono ad esempio perché non possono fare pause tra il massaggio cardiaco e la scarica elettrica. La stessa dottoressa del pronto soccorso ammette che non ha mai visto un defibrillatore in tutta la sua carriera, nè all’università nè al lavoro!
Fortunatamente, dopo le prove pratiche di simulazione sul manichino, tutti superano il test scritto, è un grande successo! Quei pochi che non si sono presentati all’appello, comprendendo tardi il valore della formazione offerta, sono andati dalla docende supplicandola di poter recuperare: un altro passo avanti.

Al pomeriggio partecipo come infiltrata in una riunione tra le volontarie sanitarie, sister Pauline e sister Betty. Stanno facendo un grande lavoro: la strutturazione di quello che in gergo chiamano “piano di lavoro“. In pratica hanno osservato l’organizzazione delle attività quotidiane nei reparti, hanno intervistato infermieri, ostetriche e dottori, poi hanno provato a mettere per iscritto le buone prassi da migliorare e quelle da introdurre ex-novo. Questo potrà aiutare a prevenire errori, a gestire emergenze, a migliorare l’assistenza. Senza pretendere di raggiungere da un giorno all’altro gli standard italiani, tante piccole attenzioni e prassi permetteranno di raggiungere un buon livello. Capisco l’importanza della collaborazione tra chi viene per un mese ad Adwa portando competenza, propositività e quell’imparzialità di un punto di vista esterno, e chi dà continuità, conosce i limiti delle persone e dei mezzi a disposizione, adatta realisticamente gli obiettivi. La conoscenza ed il rispetto reciproci sono davvero preziosi in questa fase, per il bene dell’ospedale e dei suoi assistiti.

Carolina in questi giorni affianca le dottoresse nelle visite e nell’accettazione del pronto soccorso. Sta documentando i casi più difficili. Mi racconta che hanno visto due casi di leishmaniosi, di cui uno su un bimbo piccolo… In Italia ne sentiamo parlare solo riguardo i cani, qui colpiscono i più poveri tra i poveri: è collegato all’igiene ed alla vicinanza ad animali infetti. La paziete adulta colpita è problemi dermatologici da tanti anni, che l’hanno fatta cadere anche in problemi mentali. Un caso che purtroppo difficilmente si riuscirà a trattare qui.

Venerdì hanno organizzato una mattinata di volontariato alla missione di Madre Teresa di Calcutta.
Ne ho sentito parlare tante volte e visto tante foto, ma non ero mai andata di persona. Lì vengono accolti i bambini e gli adulti abbandonati da tutti: piccoli con handicap che le famiglie (di solito i padri) rifiutano, le ragazze madri che non sono in grado di gestire da sole un figlio, gli anziani che non hanno più nessuno che li accudisca, i malati terminali. So che la missione salesiana da anni collabora con aiuti in natura: con il progetto agricolo, parte del latte delle nostre stalle è donato ogni giorno, e in ospedale tutti i loro pazienti hanno sempre la garanzia di cure e farmaci gratuiti. Viceversa, se un neonato viene abbandonato, il loro orfanotrofio è il primo a cui si chiede accoglienza.
Mi hanno sempre detto che ci vuole uno stomaco forte per visitare questo luogo. Le volontarie negli anni sono andate per visitare qualche malato, portare vestiti e cibo, far giocare i bambini. Questa volta il proposito è decisamente più allegro: armate di bagnoschiuma, guanti e camici impermeabili, le infermiere si lanciano nel lavaggio dei piccoli assistiti. L’operazione, al netto della situazione igienica non semplice, riesce con grande divertimento di qualcuno, un paio di pianti, qualche tremore nell’attesa di asciugamani e vestiti puliti, e tante coccole. La scena che ci portiamo nel cuore? Al momento del pasto, un bambino spastico che imbocca l’amichetto cerebroleso. La solidarietà tra questi piccoli abbandonati è davvero commovente.
Prima di salutare, chiediamo alla missionaria se qualcuno è nato al Kidane Mehret. Ci indica un bimbo di un anno: la mamma aveva problemi mentali e non sarebbe stata in grado di seguirlo, ma stando in questa comunità protetta si è dimostrata affettuosa e accudente. Mi si accende una lampadina: si chiama Lion?! E’ proprio il piccolo che l’anno scorso era stato accudito giorno e notte dall’infermiera Juster quando era nato prematuro e la mamma aveva avuto bisogno di un ricovero in psichiatria. L’avevano chiamato così per la tenacia che aveva dimostrato a sopravvivere… Che bello vederli oggi entrambi in salute!

Anche questa sera vado a letto col pensiero che siamo nel posto giusto, che ogni sforzo vale la pena…

Restate con noi!