Oggi vi racconto di me e di Adwa – sono Carolina e faccio la fotografa

Oggi vi racconto di me e di Adwa – sono Carolina e faccio la fotografa

Carolina fotografa

Cari Amici,

oggi mi prendo un po’ di tempo e vi racconto di me, di Adwa e del mio recente viaggio in Etiopia.

Mi chiamo Carolina Paltrinieri, ma gli amici mi chiamano Carol. Con tanti di voi ci conosciamo di persona, faccio la fotografa e collaboro da otto anni con la missione.

Ricordo il mio primo viaggio come fosse oggi: un viaggio di tre giorni in macchina da Addis Abeba ad Adwa insieme a Sister Laura. Ero “giovane e silenziosa”.

Sister Laura ogni tanto ricorda con nostalgia quella mia timidezza dei tempi andati.

Tra di noi si creò subito un rapporto di fiducia. Eravamo sulle montagne del Semien e lei fermò la macchina per farmi fotografare il panorama. Salii su uno sperone di roccia, sotto di me lo strapiombo e una vista mozzafiato. Mi sentii afferrare per la maglia, era lei che disse: “Tu fotografa ma, io ti tengo”.

La nostra amicizia è nata così.

Dopo quello strapiombo ho scattato milioni di foto.

Sono tutte impresse nella mia mente: i bambini, i laboratori, i volontari, le suore, le donne di Adwa, le carcerate, gli interni delle case.

Con i ragazzi della scuola abbiamo fatto laboratori di fotografia.

Al mio arrivo ho imparato ad assemblare armadi in quell’ostello che adesso è casa. La mia camera è la 214, sempre quella e Suor Imelda lo sa e non sbaglia mai.

In questi otto anni, Adwa mi ha fatto crescere sia a livello umano che lavorativo. Ho imparato ad essere forte e determinata, a non arrendermi mai, perché la sofferenza che i nostri occhi assorbono in questi luoghi ci insegna a lamentarci il giusto. Sembrerà una frase fatta… ma c’è sempre chi sta peggio e chi non ce la fa.

Ad Adwa documento anche l’attività dei dottori in ospedale. Ho sempre cercato di fotografare al meglio per far capire a tutti voi quanto è importante il vostro sostegno.

In sala operatoria scatto per l’archivio delle cartelle cliniche e se c’è bisogno mi hanno insegnato a passare i ferri e dare qualche punto.

Ad Adwa si impara a fare tutto, anche aggiustare gli sportelli dei frigoriferi della farmacia con il tappo di una BIC!

Tra le montagne che fanno da cornice alla missione sono nate amicizie solide, come quella con Marco. Io e lui siamo i più giovani, ma anche quelli che sono lì da più tempo. Tante volte alla sera ci ritroviamo in terrazza. Capita che piango perché è stata una giornata particolarmente dura e solo a chi è con me posso raccontarlo: certe cose non si dicono a chi mi aspetta a casa per non far soffrire nessuno. In queste occasioni Marco mi dice sempre: “ Carol, a questa gente vogliamo bene, è la nostra forza”.

Io e lui siamo fratelli, litighiamo, ridiamo, lui mi stritola, mi fa venire i lividi sulle braccia e io grido e poi andiamo in moto.

Potrei parlarvi per ore dello staff residente ad Adwa, è la mia seconda famiglia.

In questo momento ho tanto tempo per scrivervi perché sono in isolamento.

Sono rientrata da alcuni giorni dall’Etiopia. Stavo lavorando Addis Abeba per l’Istituto Italiano alla Cultura, un progetto fotografico che sarebbe durato un mese e che si sarebbe concluso con una mostra il 31 marzo. Successivamente sarei andata direttamente ad Adwa per lavorare con i medici e per fare la distribuzione degli aiuti.

Due giorni dopo il mio arrivo ad Addis, in Italia si è scatenato l’inferno, come tutti voi ben sapete. In Etiopia ci sentivamo protetti, ho continuato per tutta la settimana a prendere contatti in capitale e a fare fotografie per il mio lavoro.

Solitamente quando noi stranieri andiamo in giro per le strade i locali ci chiamano amichevolmente “Farengi”. Ma di punto in bianco quel nomignolo che mi fa sempre sorridere è sparito per essere sostituito da “Corona-Corona” .

Era arrivata la paura e i primi casi accertati.

In un paese come l’Etiopia l’arrivo della pandemia è incontrollabile, lo stile di vita di questo popolo non permette alcun controllo.

La maggior parte della popolazione non può stare in casa perché non l’ha, mangia con le mani, vive in condizioni igieniche precarie. Contenere gli assembramenti è impossibile e gli ospedali pubblici non hanno respiratori.

Le telefonate con Adwa erano all’ordine del giorno. Li informavo delle notizie che circolavano ad Addis ed insieme cercavamo di fare un piano operativo.

Sister Laura era – ed è tuttora – in Italia perché si sta rimettendo da due operazioni ed è come un leone in gabbia, vorrebbe stare vicina alla comunità.

Voleva che rientrassi in Italia perché il focolaio in capitale si stava espandendo, ancora oggi continua a “tenermi stretta per la maglia”.

Quando lunedì 16 marzo le scrissi “Stai tranquilla rientro domenica 22” non mi rispose.

Il giorno dopo invece il Consolato e l’Ambasciata mi avevano anticipato il volo alla notte successiva. Quando glielo comunicai, le sue testuali parole furono “ MENO MALE. IERI HO EVITATO DI COMMENTARE IL TUO RIENTRO A DOMENICA PROSSIMA”.

La sera prima di partire ho conosciuto un logista locale che ci aiuterà nell’importazione visti i tempi difficili che ci accingeremo ad affrontare anche ad Adwa.

Lo staff della Missione e le suore giù sono meravigliosi, l’ospedale è organizzato e stanno collaborando con le strutture sanitarie statali per formare e preparare medici e infermieri locali in caso si scateni la pandemia, la scuola è chiusa e la missione blindata.

Nel nostro piccolo da casa possiamo solo cercare di raccogliere fondi per uscire a continuare a pagare gli stipendi dei lavoratori etiopi che se no non avrebbero di che mangiare.

Io sono a casa al sicuro, una casa ce l’ho. Il mio pensiero è per Adwa: sono con voi e arriverò presto!

Carol